𝙇𝙖 🥐𝙤𝙡𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 ✏️𝙪𝙣𝙚𝙙𝙞 (Episodio 181) – Viviamo nell’epoca del tutto e subito, della velocità delle cose, continuamente presi nella spasmodica ricerca delle scorciatoie: in quella ossessionata e disperata corsa contro il tempo. Ovunque, sempre, in ogni momento, in ogni situazione: anche nello sport, figuriamoci nel calcio che ormai è diventato un clamoroso business show.
Mentre nei dilettanti annaspano, sprofondano in quell’odissea melmosa e stagnante, tra debiti incolmabili e sogni impossibili, il professionismo è diventato un mondo spaccato a metà. Quello sul filo del rasoio che sgomita per non cadere giù, e quello che si indebita fino al collo, nella girandola di schiaffi a colpi di milioni d’euro, sparati così come coriandoli di carnevale in faccia al popolo: incuranti perfino di un benché minimo senso di dignità.
Lo sportivo, il tifoso, l’appassionato è ormai disilluso. Si aggrappa all’immaginario, ma in fondo non ci crede più. Non crede più alle bandiere: quella figura mitologica in rappresentanza di una casacca, di uno stemma, di un senso di appartenenza; o meglio ancora di un’ideologia, di un pensiero, di una comunità, o perfino di un’epoca. Tutto finito, chiuso negli almanacchi di un tempo che fu: strapassato remoto. Non esiste? Lo inventiamo adesso.
Per un club un tempo diventavi importante alla centesima presenza, alla duecentesima ti trasformavi in una bandiera. Oggi è tutto cambiato, alla ventesima presenza festeggi in pompa magna esattamente come oggi si celebrano i diciottesimi d’età: sembrano sposalizi. Se arrivi alla centesima sei quasi vecchio, alla duecentesima ci arrivi solo perché non ti ha voluto nessuno, e per l’ideologia contemporanea rappresenti l’occasione mancata: quella di fare plusvalenza, generare fonte di guadagno sicuramente per qualcuno. Ma cos’è il calcio oggi? E’ commercio. Prodotto interno lordo, un movimento continuo, una fluttuazione impazzita che genera ricchezze solo se le pedine si muovono, a piacimento di manager e rappresentanti: con buona pace dei tifosi e degli sportivi che in questa girandola impazzita nel frattempo perdono il gusto e la profondità delle cose.
Oppure non ci capiscono più niente, possiamo anche scriverlo, tanto non credo si offenda qualcuno. E’ così che in questa girandola impazzita si generano fenomeni in poco tempo: una nuova promessa che debutta in Serie A indovina dieci partite ed è già un talento indiscusso, infila tre gol ed è già una certezza. Non c’è tempo per gli errori, non ci sono margini per conoscere i difetti e provare a limarli. Il tempo corre veloce, batte il centesimo di secondo, o spacchi subito o finisci scartato nelle fosse delle marianne, quei melmosi bassifondi del professionismo dimenticato o, peggio ancora, del dilettantismo suicida. C’è chi in questo mondo prova ad essere giusto, nonostante tutto a prendere il tempo che serve, ma è un rischio, un rischio enorme: perché quel club che prova a fare le cose perbene si trova a competere con un’altra realtà che fa di tutto. Crea voragini di debiti che poi colma in come non si sa, e nel frattempo senza giustizia per gli altri si prende pure il bravo popolare, e magari certificato dai successi di qualche risultato. Il sistema ha creato questo: la quasi impossibilità di sconfitta e fallimento per alcuni, incanalati in un piano di intoccabilità. E’ così che quei pochi club, senza angeli in paradiso, per non scomparire in un “puff” di una bolla di sapone si dimenano in quei “tetris” ingarbugliati di stanze piene zeppe di manager e rappresentanti: devono rispettare le regole loro, costretti a far diventare fenomeni in poco tempo prospetti che di tempo ne avrebbero bisogno un po’ di più, per crescere, per maturare, per trasformarsi in un qualcosa di più che non solo elementi di quel prodotto interno lordo in cui il calcio non si riconosce più.