𝙇𝙖 𝙤𝙡𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙪𝙣𝙚𝙙𝙞
(Episodio 126) – Mi sono sempre chiesto da dove fosse nata, e perché, quella tradizione del gettare le cose alla fine di un anno, addirittura giù dai balconi per giunta. Me lo sono chiesto per la prima volta guardando un’ormai storico film di Paolo Villaggio, nei panni della sua seconda identità: “Fantozzi”.
Ero pressoché un bambino quando vidi il film per la prima volta, e con gli occhi di bambino restai a metà tra lo stupore ed il divertimento nel vedere la nuova fiammante auto di Fantozzi accartocciarsi sotto il peso di un vecchio elettrodomestico lanciato da tre piani sopra. Era una notte di San Silvestro, mezzanotte precise: già, perché Fantozzi e i suoi colleghi, avevano festeggiato il nuovo anno in anticipo, traditi dal maestro Canello che alle 22:30 in punto barò clamorosamente, mandando avanti di un’ora e venticinque minuti le lancette dell’orologio.
La felicità vive dentro gli occhi di un bambino, si narra, perché vive tutto con stupore e curiosità, perché tutto è una meravigliosa scoperta; si dice anche che un segreto per restare felici da grandi sia proprio quello di non abbandonare mai gli occhi di quel bambino che, pur crescendo, continua a vivere dentro di noi, e magari riguarda sorridendo le scene di un capodanno divenuto cult cinematografico italiano.
Così alla vigilia di San Silvestro osservo un oggetto che, tradito da una folata di vento, giace ora immobile sul pavimento: spaccato in due.
L’avevo acquistato qualche anno fa, in un periodo forse in cui ci bastava veramente poco per essere felici: entrare in un bar, passeggiare per le strade di un centro cittadino e per una campagna, guardando qualcosa in alto, perchéun altro segreto della felicità è avere i piedi a terra e la testa in alto. Un po’ ancorati a terra e un po’ in volo.
Basta così poco alla gente per essere felice: ma solo se sa amare. Diversamente tutto si incupisce, diventa grigio, pesante: mediocre.
Gli occhi osservano quell’oggetto spaccato a metà, una metà esatta e la prima cosa che mi viene in mente di fare è raccoglierlo, come un piccolo passerotto venuto giù dal nido. Lo raccolgo e unisco i pezzi, come se per magia le mie mani potessero sistemare tutto.
Lo osservo attentamente, e osservo quello squarcio così profondo e netto, che divide a metà: quello che c’era e quello che adesso non c’è più, un’unione che raccontava ricordi di vita, dove ora c’è solo un oggetto distrutto.
Penso che forse posso aggiustarlo davvero, che la prima cosa risolutiva da fare sia rimediare una colla potente, quella che tiene attaccato tutto, persino ciò che è irrimediabilmente rotto.
Così mi adopero per recarmi in uno di quei posti dove vendono stupide cose utili che aggiustano stupide cose rotte: spendere soldi e tornare a casa, e… incollare. Notare nella mia piena consapevolezza che l’oggetto che prima era un oggetto bello, adesso è un oggetto che si è rotto.
Li vedi gli oggetti rotti. Li vedi da lontano. Li vedi perché mantengono quell’anima distrutta di chi era morto ed è stato resuscitato. Sono più brutti, più tristi, più cupi, gli oggetti rotti: anche se sono stati riparati mantengono l’anima di chi una volta era intero ed adesso è a metà.
E mentre penso a tutto questo, capisco che nella vita bisogna accettare: che il nostro più grande potere è lasciare andare, esattamente come l’anno appena trascorso per lasciare spazio all’anno che verrà, “che porterà una trasformazione, e tutti quanti stiamo già aspettando… e senza grandi disturbi qualcuno sparirà, saranno forse i troppo furbi, e i cretini di ogni età…”.
Così a mezzanotte e un minuto del nuovo anno cambi idea: pensi che era un bell’oggetto, e che ti ho amato. Ma adesso che sei rotto non puoi amarlo più: e per questo ti butterò.
Perché se resti a casa mia, rotto, io dovrò guardarti ogni giorno, e l’unica cosa che vedrò sarà un oggetto rotto che non ho avuto il coraggio di buttare.
Potrei rischiare di vivere l’anno nuovo con quel senso di colpa: non essere riuscito a proteggerti, evitare di sfragellarti sul pavimento e spaccarti in due, e nemmeno quello di un addio dignitoso; di quelli che ci si saluta perbene, ci si bacia e ci si lascia andare, di quelli che ci abbracciamo per un po’ e poi ci sorridiamo, dicendoci solo un ciao, ma un ciao pieno, dove la porta si apre, esattamente come il secchio dell’immondizia, e tutto diventa un ricordo.
Ecco forse perché venivano lanciate vecchie cose, anche se il dubbio resta: funzionanti o no? Si accompagnano alla porta, gli facciamo notare dove si trovi la via d’uscita, sorridiamo e richiudiamo dolcemente la porta alle sue spalle.
Siamo esseri umani portati per natura alla felicità: si sta, fino a quando le crepe non sono così profonde da rompersi e spezzare un’anima in due, fino a quando le crepe abbelliscono, fino a quando nonostante le crepe, si sta insieme. Le crepe sono quel nonostante tutto, e allora si sta nonostante tutto.
E quando le crepe diventano più profonde, quando le senti scricchiolare sotto le dita, sai che si sta avvicinando la fine: che basta una presa più stronza e tutto si spaccherà a metà; esattamente come quell’oggetto sfracellato sul pavimento.
Meglio lasciar perdere la colla che con il tempo si secca e crea quell’alone brutto e ingiallito, lo scotch che con il tempo si stacca lasciando il segno colloso, gli elastici che poi con il tempo si aggrappano senza più fare presa; lasciamo perdere tutto ciò che ricorda quanto brutto sia qualcosa di rotto.
Che sia un oggetto o qualcosa di diverso, abbiamo sempre questo bisogno di rendere eterno il presente, quando sappiamo bene che il presente resta in eterno un ricordo, anche questo San Silvestro, dove la gente non butta più gli elettrodomestici dai balconi: oggi c’è la raccolta differenziata, tutto l’anno. Anche se osservando i ciglioni della strada non tutti lo sanno (forse).
Già, oggi viviamo nel mondo della raccolta differenziata: così quell’oggetto che non sono riuscito a proteggere, e che si è sfragellato sul pavimento, finisce dentro al secchio grigio, e la sua base, di cartone, in quello bianco. Siamo nel mondo dei colori, e delle telecamere ovunque: verde, giallo, rosso, e nel mezzo pure l’arancione, mentre un tempo esistevano solo i semafori agli incroci… che poi nessuno rispettava, e per questo oggi c’è sempre un obiettivo pronto ad inquadrarti, e a farsi i fatti tuoi.
Oggi c’è abbondanza di tutto, ma molto in realtà è di scarsa qualità. E’ inutile voler trasformare la muffa in piatto prelibato. La muffa è muffa. Posso dispiacermi di non essere riuscito a mangiare qualcosa, posso dispiacermi di buttare il cibo e doverlo relegare nel secchio marrone, però non mangerò la muffa per alleviare il mio senso di colpa. Butterò, pazienza, con la consapevolezza che la prossima volta saprò fare di meglio e scusatemi tutti.
Nella notte di San Silvestro puoi capire che niente è perenne, come l’anno appena trascorso, come spesso un nostro amico più fidato sia un punto alla fine della frase, con la consapevolezza che le virgole uccidono, non i punti: “l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità…”.
Controllo bene l’orologio, non c’è il maestro Canello a portar avanti le lancette, perfino la macchina l’ho parcheggiata al sicuro, lontano dai palazzi da tre piani e più. Saluto il vecchio anno, e saluto l’anno che verrà, con una consapevolezza in più: la muffa è muffa, fine della storia.